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Antropologi con la matita: una storia di illustrazione e graphic recording

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La prendo alla lontana: c’è un’intera persona adulta che potrebbe votare per il Senato tra me e la giovane tostoini davanti al dilemma di cosa fare all’università. In quel momento forse non l’avrei formulato in questi termini, ma le cose che mi interessavano abbastanza da essere criterio di scelta erano tre: mi piaceva disegnare, mi piaceva capire il perché delle cose, mi piacevano le cose buffe e sorprendenti. (tutti concetti accomunati dal non avere alcun nesso con una carriera finanziariamente all’insegna dell’agio e delle mollezze, è evidente). Studiare per disegnare-di-lavoro in quel momento non era un’opzione praticabile, quindi mi sono concentrata sulla seconda possibilità e ho passato gli anni successivi a farmi una cultura sull’antropologia e disegnare sui margini dei libri. A quel punto lì della faccenda in base alle informazioni in mio possesso e da quello che sapevo del mondo – le due cose insieme non si potevano fare. (Figuriamoci tutte e tre).

Riassunto degli anni successivi: faccio un sacco di confusione, disegno, cambio città, passo un sacco di tempo su internet, lavoro, disegno, mi accettano ad un master, non vado a fare il master, vado a vivere a Milano gridando è una sistemazione temporanea, lavoro, disegno. La formazione antropologica mi torna utile. A un certo punto cambio lavoro, mi rimetto a studiare – questa volta illustrazione, inizio a disegnare-di-lavoro per davvero. Passando un sacco di tempo su internet, a un certo punto conosco Sara Serravalle, che fa un lavoro interessante chiamato visual facilitation. Sara mi dice un numero imbarazzante di volte che dovrei approfondire la faccenda perché potrebbe essere proprio nelle mie corde. Io le dico di no un numero imbarazzante di volte perché penso che non sarei capace. Quando mi decido a darle retta salta fuori che sì, in effetti aveva ragione. Peraltro sia nel graphic recording che nello scribing, nella facilitazione visual e nello sketchnoting alcuni strumenti di base dell’antropologia mi tornano utili, tipo l’osservazione partecipante.

Mentre io faccio un sacco di disordine a destra e a mancina il mondo andava avanti per salti quantici, e di luoghi, progetti e persone che mescolano registri e mezzi espressivi differenti, ne nascono a miriadi. In uno spazio di nicchie permeabili e in contatto il fatto che le persone siano composte di identità e inclinazioni diverse è una feature e non un bug, e gli interessi disparati delle persone – e le persone stesse – sono il tramite tra gli ambiti apparentemente lontanissimi che abitano. Nelle intersezioni di tutti questi diagrammini di Venn stanno le cose più intriganti. Perché esistano artiste come Rosemary Mosco o testate come The Nib bisogna che ci sia intorno un contesto di comunicazione e produzione culturale che non chiede di scegliere se disegnare, studiare le bestie assurde o fare ricerca, oppure fare ridere le persone, e che celebra la capacità di passare dall’uno all’altro di questi registri e di portare in tutti qualcosa degli altri.

Sempre perché sono una persona che sta un sacco online, a un certo punto inizio a frequentare un canale slack di Graphic Anthropology, dedicato agli antropologi che disegnano come strumento di ricerca, come strumento di riflessione. e perché è divertente. Tra questi ultimi c’è Monika Weissensteiner, che un giorno mi scrive perché sta organizzando con Alice Sophie Sarcinelli un workshop dedicato ai linguaggi alternativi o complementari alla scrittura nella ricerca antropologica ed etnografica, per chiedermi se mi interessa fare il graphic recording dell’incontro durante il IX convegno SIAA a Roma. Qualche mese dopo Sophie e Monika iniziano a lavorare per trarre da quella esperienza una riflessione di più ampio respiro. Il 17 gennaio è uscito il numero del cinquantenario della Revue des Sciences Sociales, una storica rivista di sociologia, antropologia e etnografia su cui ho passato diverse ore da universitaria. Il numero di cui si celebra l’uscita contiene un articolo che si intitola Ariadne’s thread. Interweaving creative expressions in ethnographers’ practices e che oltre alle firme di Alice Sophie Sarcinelli, Monika Weissensteiner, Cristiana Giordano e Greg Pierott c’è pure la mia. L’articolo parla dell’uso dei linguaggi creativi come strumento di ricerca, e la mia parte si occupa dell’uso del graphic recording in ambito accademico.

Di tutto le cose che ho scritto nella mia vita lavorativa, questa è stata a mani basse una delle più interessanti, ma anche la più terrorizzante. Grazie per avermi dato fiducia, supportato e guidato nonostante quello sguardo da riccio che vede approssimarsi i fari della macchina.

Ci sono sicuramente graphic recorder più bravi, disegnatori migliori e persone il cui contributo intellettuale alla propria disciplina è più importante, ma a me è sempre piaciuto stare all’incrocio delle cose, vedere come ambiti diversi possano parlarsi e arricchirsi. Qualche mese fa ho seguito un webinar di Scriberia dal titolo The Art Of Research Communication, e a un certo punto uno degli speaker ha detto “Imagine that your research is an ocean” per parlare di come un lavoro di ricerca sia fatto di tantissimi livelli, da una superficie baciata dal sole con le cose facili da spiegare alle profondità del fondo marino coi concetti dalle forme ostiche. Ecco, a me questa cosa di fare l’animalino che passa dalla superficie baciata dal sole agli abissi incredibilmente weird piace un sacco.

Ho fatto una cosa di cui vado un po’ orgogliosa, con un significato personale non irrilevante. Vorrei poterlo dire alla persona che ero a vent’anni che arriverà un punto in quelle che sembrano false partenze si rivelano strumenti fondamentali, che disegnare e produrre pensiero non sono necessariamente due strade separate. Probabilmente non mi darebbe retta, se un po’ la conosco.

E visto sono una professionalissima scappata de casa, oltre al portfolio di illustrazione generale, ho messo insieme anche un piccolo portfolio più specifico solo sul graphic recording, perché ho pensato che continuare a farlo senza dirlo non fosse proprio la mia idea più brillante. Se avete bisogno di me sapete dove trovarmi.